lunedì 29 agosto 2016

Il destino è quel che è, non c'è scampo più per me


Conobbi il Gene Wilder attore in quel periodo dell'adolescenza in cui ti metti a riscoprire alcuni grandi classici per farli tuoi, metterli nel cuore, custodirli in maniera anche un po' morbosa e arrogante. Me ne innamorai perché amavo Mel Brooks e la sua comicità a volte spicciola e a volte geniale, la sua ironia a metà tra il genio e il demenziale, il pungente e lo sciocco. Inutile dire che Wilder ha contribuito alla parte migliore della carriera cinematografica di Brooks, da Per favore non toccate le vecchiette a Mezzogiorno e mezzo di fuoco (il mio preferito, sebbene tutti lo odino).



Poi volle scrivere, ma era troppo umile per farlo da solo, così chiese una mano all'amico e assieme stesero lo script di Frankenstein Junior. Brooks lo diresse, ma quel parto era per buona parte merito di Wilder. Quando lo scoprii (all'epoca credevo ancora ottusamente che il regista avesse sempre e solo tutto il merito della buona riuscita di un prodotto cinematografico) iniziai ad intravedere qualcosa di più del geniale attore comico in lui, iniziai ad incuriosirmi al suo lato narrativo e alla sua voglia di diventare regista.



Nel 2009, mentre studiavo Regia e Sceneggiatura a Bologna, acquistai il libro Baciami come uno sconosciuto, una biografia romanzata di quel Gene Wilder che voleva tanto diventare attore e che, alla fine, divento molto di più. Da lì appresi il suo lavoro dietro la macchina da presa (anche come regista, per cult come La signora in rosso e pellicole meno note come Il fratello più furbo di Sherlock Holmes) ma, soprattutto, fu con quel libro che decisi che la mia vita non avrebbe più potuto fare a meno del cinema.



Con una naturalezza disarmante e una sincerità affascinante, Wilder raccontava in quel libro come la magia della settima arte lo aveva stregato e catturato, svelando ai lettori lo straordinario mistero della creazione di una sceneggiatura, raccontando le disavventure dietro e davanti la macchina da presa, le litigate con i colleghi e con il regista, per finire con una indimenticabile, meravigliosa descrizione sull'importanza del montaggio cinematografico. Da quel libro ho imparato a capire a fondo Gene Wilder, a sentirlo vicino, come un amorevole sconosciuto a cui vuoi bene perché, in fondo, senti che è una brava persona la quale ti sta dando molto di più rispetto a quello che ti darebbe qualunque altro sconosciuto. Da quelle pagine ho scoperto tutte le sue sofferenze: le fatiche adolescenziali, la perdita della moglie Gilda Radner, i due cancri combattuti e sconfitti. Un uomo sofferente ma vincente, tanto che pensavo fosse immortale. E invece.



Quel libro, scritto con passione, ironia e tanta onestà, ha segnato una pietra miliare nel mio modo di intendere il cinema, aprendomi gli occhi sotto tanti aspetti, ma soprattutto nutrendo e accrescendo il mio senso di meraviglia e la mia sensibilità, due aspetti indispensabili e necessari che, almeno a mio parere, non devono mancare a nessun essere umano che si avvicini al mondo del cinema. Se oggi sono così, insomma, lo devo un po' anche a lui, per cui grazie tante, Gene. 


martedì 16 agosto 2016

Perché me ne sbatto di Suicide Squad

Le parole che seguiranno non prenderanno in considerazione il contenuto e la qualità del film, poiché il sottoscritto non lo ha visto e non ha intenzione di farlo. Chi sta battendo sulla tastiera, però, vorrebbe esternare sotto forma di sfogo blogghistico le motivazioni che lo hanno indotto a scegliere di non fare parte del pubblico di riferimento della pellicola di punta del 2016 della Warner Bros. e, essendo costui temporaneamente menomato (mano destra immobilizzata da valva gessata, le parole sono scritte con la mano sinistra), si sente ancora più giustificato a redigere un articolo brutto, inutile, insensato e che racchiuda al suo interno tutta la frustrazione dell'autore.